Is Casteddaius di Stampace
Agli abitanti di Stampace i concittadini hanno dato il soprannome di cuccuru cottu. Un termine che vuol dire zucca dura e adombra un carattere forte e coraggioso. Anche Cagliari ha una storia di liti cittadine, vi erano un tempo diffusi scontri tra quartieri contigui vissuti con una sorta di spirito <<contradaiolo>>. Gli abitanti di Castello (cussus de Casteddu ‘e susu) non scendevano tanto a Villanova e Marina, anche più accessibili e certamente più vicini, ma quaggiù, dove sfidavano is stampaxinus, gli stampacini. Correvano bastoni, volavano sassi, forse lampeggiava anche qualche lama proibita, e sembra di poter dire che i castellani le prendevano sode sempre o quasi sempre. È quindi probabile che siano stati essi a chiamare i loro nemici «teste dure», ma poi al di là di quelle baruffe, il soprannome ebbe diffusione più larga, e fu adottato dagli concittadini. Segno che o ne provarono tutti i fierissimi pugni o se li tennero ben a distanza, conoscendone pur senza un’esperienza diretta la gagliardìa. È probabile che l’epiteto sia antico quanto il quartiere, esistente già quando il vescovo di Pisa, Federico Visconti, visitò la Sardegna nel 1263. Forse anche per questa fama di gente coraggiosa, a Stampace si svolgeva fino al secolo scorso, lungo il pendio di via Azuni, una delle più spericolate corse di cavalli che si tenesse mai nell’isola. Il viceré vi assisteva da un palazzo gentilizio che sorgeva in prossimità della chiesa di Sant’Anna, ed anche quella presenza era un omaggio al quartiere burrascoso, ma generoso. Pur non sembra una semplice coincidenza che i congiurati cagliaritani del 1812 si radunassero proprio qui, per un tentativo insurrezionale contro i Piemontesi.
Is piccioccus de crobi
Attorno agli anni ’40 e ’50, venivano chiamati is piccioccu de crobi, i ragazzi rimasti orfani di padre e madre, che vagabondavano nelle strade dei quartieri storici. Soprattutto nella zona del porto e di Castello per conquistarsi un boccone di pane offrivano un servizio di facchinaggio ai borghesi della città. La notte dormivano nei cartoni o avvolti in giornali sotto i portici o nelle grotte della città.
Rubi Dalma: una nobildonna cagliaritana a Cinecittà.
La scelta dello pseudonimo, Rubi Dalma, è stata dettata forse da un semplice vezzo artistico. La leggenda vuole che le fosse stato suggerito da Gabriele D’Annunzio. Bella, dai lineamenti delicati, incantava il pubblico con la grazia di una vera nobildonna. Ma dierto quel nome esotico e fascinoso si nascondeva Giusta Manca, marchesa di Villahermosa, appartenente ad una delle più illustri famiglie della nobiltà isolana. Nasce a Cagliari il 7 maggio 1908 e non ancora trentenne entra nell’appassionante mondo della celluloide dalla porta principale. Il debutto nel grande cinema avviene, con Mario Camerini al di Vittorio De Sica, ne “Il Conte Max”, nel quale interpreta l’eccentrica e frivola contessa della quale si innamora il giornalaio povero in canna (Vittorio De Sica). La critica non risparmiò gli elogi e il pubblico, da quella prima pellicola, accolse favorevolmente tutti i suoi successivi film. Recitò ancora diretta da Camerini in “Batticuore”, con Luigi Zampa in “C’è sempre un ma” e ne “I Mariti” insieme al conterraneo Amedeo Nazzari, diretto da Camillo Mastrocinque. Si impose anche nei drammi e nelle commedie quali “L’argine”, con Gino Cervi, “Uragano ai tropici” insieme a Fosco Giacchetti e Osvaldo Valenti. Nel “Napoleone a Sant’Elena” diretto dal commediografo Renato Simoni impersonò il ruolo di una nobildonna russa. Terminata la guerra il nuovo filone cinematografico neorealista la vide protagonista in importanti film come “Cronaca di un amore” dell’esordiente Michelangelo Antonioni, ancora con Amedeo Nazzari e il tenore Tito Schipa in “Il cavaliere del sogno”. Interpretò molte altre pellicole fino all’ultima apparizione in “Il Gobbo”, di Carlo Lizzani. Conclusa la sua brillante carriera senza mai aver ecceduto nel divismo, si ritirò a quella vita riservata e discreta che aveva sempre condotto.