Il prosciutto
La storia del prosciutto, dalle nostre parti, è certamente antica quanto l’allevamento del maiale, di cui si sono trovate tracce perfino nelle terramare. C’è da chiedersi però in quale epoca lo si consumasse nella sua veste attuale, secondo la definizione dei vecchi dizionari “coscia di porco salata e conservata in modo che prosciughi, per poi mangiarsi a fette” (Fanfani). I Romani certamente cuocevano la perna, così come tutte le altre carni, ma se dobbiamo giudicare dai bassorilievi delle porte d’ingresso di Reims, si direbbe che i Galli conoscessero bene l’arte di conservare e insaccare le carni suine .
Non so dire con esattezza quando sia cominciata a spandersi la fama del prosciutto parmigiano in Italia e nel mondo: certo prima che Loderigo Bonanni, langhiranese, importasse a Parigi, nei primi anni dell’Ottocento, prosciutti e salami che fecero la delizia del gourmet parigino Grimod De la Reynière. Quel che è certo è che una testimonianza della fine del Cinquecento (una poesia latina di Pomponio Torelli ) ci porta già nella zona tipica (Montechiarugolo, nella media Val d’Enza), e accenna al modo attuale di stagionatura e salatura.
La spalla
L’aria umida e nebbiosa della nostra Bassa è indispensabile anche per quella che deve essere considerata la nostra più antica specialità suina: una pergamena redatta a San Secondo nel 1170 ed un’altra stilata a Plasone nello stesso anno prescrivono che gli affittuari locali delle terre di proprietà del Capitolo di Parma devono, tra le altre cose (vini, spelta, focacce, pane, grano, pollame) fornire “unam spatulam” o “unam spallam” se allevano maiali. Un esempio veramente incredibile di persistenza “in loco” della produzione di un tipo di salume che già più di otto secoli fa incontrava, evidentemente, il favore delle mense più esigenti. Il primato di antichità, ripeto, va alla spalla.
Oggi la spalla (che è quella delle zampe anteriori, è ovvio) si mangia per lo più cotta, secondo la classica ricetta verdiana.
“Caro Arrivabene, io non diventerò feudatario della rocca di San Secondo, ma posso benissimo mandarti una spalla di quel Santo. Anzi, te l’ho già spedita stamattina colla ferrovia. Quantunque la stagione sia un po’ avanzata spero la troverai buona, ma devi mangiarla subito, prima che arrivi il caldo. Sai tu come va cucinata? Prima di metterla al fuoco bisogna levarla dal sale, cioè lasciarla per un paio d’ore nell’acqua tiepida. Deve bollire a fuoco lento per sei ore, poi la lascerai raffreddare nel suo brodo. Fredda che sia, vale a dire circa 24 ore dopo, levala dalla pentola, asciugala e mangiala”. Ricetta di Giuseppe Verdi, Lettera ad Opprandino Arrivabene, 27 Aprile 1872.
Il culatello
Chissà che per primo s’è inventata la storiella del culatello secondo cui nel 1322, al matrimonio sontuoso tra Andreasio Rossi e Giovanna Sanvitale, sulle mense imbandite un po’ ovunque negli edifici (anche sacri) prospicenti la piazza del Duomo, “figuravano tra idoni degli eccellentissimi culatelli”. Questo non risulta da alcun documento, ed è puro parto di fantasia; l’ultimo autore che abbia registrato in un volume questo falso atto di nascita è Paolo Petroni, che rimanda alla “Historia della città di Parma” di Bonaventura Angeli, dove non sta scritto niente di simile. La prima citazione del culatello (il “fiocco” o “culatta”, la parte estrema della coscia) deve attendere almeno la seconda metà del Quattrocento per ottenere dati anagrafici attendibili (omaggi di culatelli dai Pallavicino a Galeazzo Maria Sforza, Duca di Milano).
Sulla zona di produzione del culatello, “il capolavoro indiscusso, il prodotto inimitabile della gastronomia” parmigiana (Molossi), si è stabilito che riguarda, oltre alla sua terra d’origine – Zibello – anche Busseto, Soragna, Polesine, parte del territorio di San Secondo, parte del Colornese, Roccabianca e Sissa.
La coppa
Un’altra specialità prettamente parmigiana che i Piacentini rivendicano come propria è la bondiola (o coppa), così detta perchè viene insaccata nella “bonèn’na” (l’intestino cieco); il termine “coppa” è più eloquente e designa la parte prevalentemente magra del maiale che dal collo va alla nuca. In un poemetto settecentesco modenese, l’autore si scusa con il Correggio e con gli storici di Parma, e si rivolge alla città esaltando “Tua Bondiola ammiranda, e tua Spalletta”. La bondiola parmigiana affascinò anche l’inveterato viaggiatore e poligrafo Casimire Freschot, che nelle sue Mémoires des Cours d’Italie (Utrecht 1711) parla di Parma, del suo “excellent fromage si rennomé partout” e di un certo salume chiamato “Bondiole, d’un gout très-exquis.